Sergio Leone: le storie universali di un nerd del cinema
Sergio Leone
«Quando ero giovane credevo in tre cose. Il marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite».
Il mito del cinema
«Tu te pensi Tarantino
io so’ Sergio Leone».
Colle der Fomento
Forse il suo primo film da regista, Il Colosso di Rodi (1961), lo ricordano in pochi, ma le Trilogie dei Dollari e del Tempo appartengono all’immaginario collettivo, ormai da generazioni. Magari ne teniamo a mente solo i titoli, qualche scena, mezza citazione storpiata o un mozzicone di colonna sonora, ma quelle sei pellicole, firmate tra il 1964 e il 1984, sono parte di noi: c’erano una volta, ci sono e ci saranno sempre, come recita, al singolare, l’epitaffio di Sergio Leone.
Un gioco da ragazzi
Celebrare Sergio Leone sarebbe quindi un gioco da ragazzi per qualunque homo, anche non sapiens. Basterebbe snocciolare i nomi delle stelle nate, consacrate o tornate a brillare davanti alla sua cinepresa, ricordare qualche scena famosa, elencare i centinaia di omaggi o tentativi d’imitazione ricevuti, esaltare i primi piani stretti (quelli che Tarantino invocava, chiedendo un «Leone» ai suoi direttori di fotografia) su ceffi che sembrano strappati dalla Salita al Calvario di Hieronymus Bosch e che Sergio Leone era così bravo a scovare.
Restare in superficie
Oppure ricordare la fortunatissima simbiosi tra il suo girato e le composizioni di Ennio Morricone, altro genio tutto italiano e suo compagno di classe in terza elementare. C’è solo l’imbarazzo della scelta, se si vuole andare sul sicuro e restare in superficie.
Ma la superficie e i luoghi comuni, per quanto grandiosi ed eterni, non bastano a noi nerd. A noi piace immergerci in lunghe indagini, approfondire e studiare, alla ricerca di punti di vista diversi e di dettagli, tanto più preziosi quanto più sono superflui. E la carriera di Sergio Leone è l’El Dorado per chi ama questo genere di ricerca.
Oltre alla pellicola, ai 984 minuti (1.120, se si conta Il Colosso di Rodi) di proiezione e a un modo tutto nuovo d’intendere e fare cinema, quell’omone trasteverino con gli occhiali spessi e dalle montature spettacolari ha lasciato in eredità una sventagliata di storie e aneddoti numerosi e indelebili, proprio come i buchi fatti dalle pallottole nei suoi film.
Una galassia di ricordi
Sergio Leone è al centro di una galassia di ricordi. Carlo Verdone, che gli deve molto più di quanto accreditato nei suoi primi film, parla con venerazione di un maestro e un amico. Clint Eastwood, ripescato dalla dodicesima stagione di una specie di telenovela western e lanciato con un poncho sdrucito e un mezzo toscano in un firmamento di stelle in cui splende ancora, ammette con candore e onestà quanto entrambi furono l’uno il trampolino di lancio dell’altro.
Il culo dei cavalli
Eli Wallach racconta di quanto amò fare il Brutto, con la pistola appesa al collo legata a un cordino, e quanto s’arrabbiò a vedersi soffiare la parte di Juan Miranda in Giù la testa (1971), da Rod Steiger. Claudia Cardinale sogna ancora di quanto fosse emozionante ascoltare la musica di Morricone prima che fosse dato il ciak e Bernardo Bertolucci, che insieme a Dario Argento partecipò alla genesi di C’era una volta il West (1968), rivela d’aver conquistato Sergio Leone complimentandosi per il suo modo di riprendere il culo dei cavalli.
Alla memoria di attori e registi c’è poi d’aggiungere quella di chi i film di Sergio Leone li ha tirati su dal nulla, pezzo per pezzo, dietro le quinte, come la stazione di Sweetwater alla fine del West.
Un ricordo non proprio tenero
«Sì, c’era un pezzetto di carta a cinquanta metri dietro alla scena, per terra, lui finché nun lo raccojevano…», si sente sospirare Tonino delli Colli, storico Direttore della Fotografia, che in un bellissimo documentario di Giulio Reale, insieme a Claudio Mancini, produttore, ed Eugenio Alabiso, montatore, fa comprendere quanto lavorare con Sergio Leone fosse massacrante.
Un regista maniacale
Maniacale nella cura dei dettagli e ossessionato dalla perfezione, è stato l’incubo di molti, cambiando cappelli su cappelli agli attori, prima di trovare quello giusto, costringendo Clint Eastwood, non fumatore, a recitare col sigaro, costringendo i montatori a spasmodiche ricerche di «quel» fotogramma, o vagando per la Monument Valley in cerca del posto esatto in cui John Ford aveva piazzato la sua cinepresa.
Un bel nerd anche lui, quindi, che prima di firmare una sua regia, nel 1961, si fece vent’anni di gavetta nella Hollywood sul Tevere, sgobbando sui set non solo dei più grandi autori del Neorealismo, De Sica in primis, ma anche delle più gloriose produzioni americane (i ciak per la corsa delle bighe di Ben-Hur li diede lui), assimilando e rielaborando questo bagaglio immenso d’esperienza per arrivare a distillare il suo cinema, che «dev’essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito».
Un grande nerd
Un mito che, alla perfezione immaginifica della forma, accostava la semplicità quasi infantile di una sostanza ottenuta mescolando tematiche antiche e inossidabili, come quelle trattate nell’epica d’Omero, visto da Sergio Leone come «il più grande autore western», con dialoghi scarni, inzuppati di sornioneria lapidaria e tutta romana, perfetta per gli sporchi protagonisti delle sue storie, efficace su un pubblico vastissimo. Un grande nerd, Sergio Leone: puntiglioso, geniale, cocciuto, originale, eterno come il mito che ha creato e che eternamente ameremo.