«Fiducia»

Sono passati dieci anni dai fatti di San Francisco, raccontati nel primo capitolo della saga Rise of the planet of the apes, da noi tradotto con un poco lungimirante L’alba del pianeta delle scimmie, esattamente il titolo di questa seconda pellicola, in inglese, per l’appunto, Dawn of the planet of the apes, che in Italia diviene Apes revolution, assumendo connotati bolscevichi e poco in linea con tutta la vicenda.

Dove eravamo rimasti?

Vinta la battaglia del Golden Gate Bridge, Cesare e i suoi si sono ritirati in un bosco e hanno fondato una comunità numerosa e pacifica, guidata con fermezza e saggezza dallo scimpanzé, ancora una volta impersonato da Andy Serkis, il cui destino singolare lo ha ormai costretto in ruoli nei quali non lo si vede mai con le sue reali fattezze.

Ape no kill ape

Le prime riprese aeree mostrano l’orango Maurice intento a elargire i suoi insegnamenti ai più piccoli, davanti a una parete sulla quale campeggia la scritta «ape no kill ape». Questo sarà l’unico richiamo evidente al primo, storico film Il pianeta delle scimmie del 1968, nel quale compariva la scritta meno rassicurante «ape shall never kill ape».

Per il resto, tutti i fan cresciuti con la prima, scioccante e assolutamente insuperabile pellicola con Charlton Heston si troveranno ancora più a disagio nel giudicare, se non addirittura nell’apprezzare, Apes revolution, esattamente com’era avvenuto con il reboot Rise of the planet of the apes.

Un reboot sempre più diverso

Già nel primo capitolo, infatti, l’esistenza di scimmie intelligenti era motivata con gli effetti inaspettati e incontrastabili di un vaccino sperimentale, destinato a curare l’Alzheimer e invece responsabile dell’estinzione della razza umana: questo cambio di sceneggiatura portava il reboot verso scenari più vicini a L’esercito delle 12 scimmie, per restare in tema di primati.

Una trama scialba

In Apes revolution vengono meno anche altri temi forti della versione originale, a favore di una trama talmente scialba e prevedibile da rendere inevitabile il confronto col film del 1968, senza che questa considerazione possa essere vista solo come un senile sguardo nostalgico al passato, rievocato sempre come decisamente migliore di un qualsiasi presente possibile.

Dopo la panoramica sulla comunità delle scimmie e una bella scena di caccia, la vicenda vive il primo cambio di rotta quando un gruppetto di umani superstiti, provenienti da una comunità arroccata ancora a San Francisco, s’imbatte nei primati. Motivo della scampagnata è la ricerca di una diga, al cui interno si trova il generatore da riattivare, necessario affinché la cittadella degli umani possa ricevere energia, sopravvivere e guardare al futuro con speranza.

Umani pacifici e non

Cesare, contro il parere di molti suoi simili, capeggiati da Koba, accorda fiducia agli umani, i cui esponenti pacifici e dialoganti hanno il volto di Jason Clarke e Keri Russell. Questi ultimi ottengono il permesso dal loro belligerante capo, il meno rassicurante Gary Oldman, di lavorare tre giorni alla diga, prima che questa sia presa con la forza.

Una guerra inevitabile

Questa corsa contro il tempo darà modo alle due razze di conoscersi, comprendersi e aiutarsi, fino a quando qualcuno tradirà l’accordo, scatenando una guerra tra scimmie e umani. Naturalmente non è dato sapere se l’inevitabile terzo film, che prevedibilmente narrerà lo scontro totale tra le due razze, chiuderà la trilogia in modo da porla come prequel della versione originale.

Sappiamo, però, che nessuna scena di questo Apes revolution ci ha stupito o disturbato. Non c’è stato il fastidio di vedere uomini, donne e bambini ridotti a schiavi nelle gabbie, privi della facoltà del linguaggio perché regrediti; non c’è stata alcuna riflessione sul capovolgimento dei ruoli tra razza umana e animale, o una denuncia ecologista a fare da cardine alla versione originale.

Nessun disagio

Manca il disagio di vedere capovolti i ruoli, per cui la natura da sempre piegata alle volontà umane riprende il comando e rende l’umanità debole e asservita; manca quel senso d’impotenza, l’idea di un’occasione avuta, ma perduta, di costruire un mondo giusto, ora invece in mano alle scimmie. È un peccato, perché Apes revolution ha un impatto visivo molto forte.

Il meraviglioso impatto visivo

Scimpanzé, oranghi e gorilla sono realizzati egregiamente, nella mimica e nei movimenti. L’assalto alla cittadella umana è assolutamente spettacolare e anche molto drammatico in alcune scene: probabilmente è l’unico momento di tutto il film in cui il tema alla sua base, vale a dire che bestialità e sopraffazione sono orrori potenzialmente appannaggio di tutti, a prescindere dalla razza d’appartenenza, riesce a farsi spazio tra i numerosi dialoghi banali e le tante trovate di sceneggiatura troppo telefonate.

Lo script è elementare, in alcuni passaggi addirittura irritante: la simmetria dei personaggi tra scimmie e umani è disarmante e sarà facile trovare per ognuno l’alter ego dall’altra parte della barricata. Allo stesso modo, i punti di svolta nella costruzione del rapporto tra le due razze soffrono degli stessi cliché triti e ritriti in centinaia di pellicole di genere. Apes revolution sa, dunque, d’occasione persa e rientra a pieno titolo in quel filone sempre più consistente di film privi di idee, nei quali si punta unicamente sull’impatto visivo.