Dark Souls: quando fummo messi alla prova come giocatori
Dark Souls
«You die».
Live, die, repeat, enjoy!
Esistono momenti nella storia in cui un film, una serie o un videogame cambiano completamente l’industria di cui fanno parte. Quarto Potere portò il cinema nell’epoca moderna, Breaking Bad ci insegnò che la TV poteva contenere grandi narrazioni, mentre in Giappone un uomo portò i giochi a essere di nuovo un terreno di sfida con noi stessi, spingendoci a intraprendere un tortuoso viaggio fatto di colpi di spada, frecce e raggi magici, sfortunatamente più subìti che inferti. Sto parlando di Hidetaka Miyazaki e del suo capolavoro assoluto: Dark Souls.
Dark Souls esce il 22 Settembre 2011 in Giappone, in un periodo in cui i videogame pian piano stavano scivolando verso un indebolimento della sfida proposta ai giocatori. Emblematico fu Prince of Persia (2008), in cui il protagonista non poteva morire per le cadute, facendo storcere il naso a non pochi giocatori data la natura platform del franchise. I videogame in quel periodo erano più concentrati a raccontare storie che a sfidare le abilità del pubblico.
Le mie reazioni
Nel 2011 non ero un gamer dal palato raffinato. Sebbene 11 anni fa incensai immediatamente New Vegas come il più grande videogioco di sempre, il resto della mia vita lo passavo dietro ai vari FIFA e Call of Duty. Scrollando la home di un’antichissima versione di Facebook, però, notai tantissime condivisioni di video di let’s play, reaction e articoli su Dark Souls: chi lo aveva provato confessava di non essere riuscito terminarlo, tanto era difficile. Da stolto qual ero, accettai la sfida al balzo, calandomi subito nei panni del mio PG ed esplorando l’accogliente terra di Lordran.
Non l’avessi mai fatto
Sin dal primo approccio, Dark Souls fu un vero e proprio inferno. Giocando in maniera conservativa, senza rischiare neanche lontanamente di schivare i colpi subìti, nascondendomi pavidamente dietro lo scudo, il mio gameplay durò la bellezza di due settimane. Sebbene fossi riuscito a raggiungere Anor Londo, superando indenne (o quasi), la terribile Città Infame, correre su un cornicione ed essere l’obiettivo di due cavalieri che lanciavano ombrelloni dai loro archi giganti non fu esattamente un’attività ricreativa.
Dopo essere caduto decine di volte puntualmente nel vuoto, la mia mente era certamente sull’orlo del collasso. Con tutta la rabbia in corpo decisi d’abbandonare Dark Souls, senza pensarci due volte. Ero stufo di leggere la maledettissima scritta che accompagnava ogni mia disfatta: «You die». Decisi, quindi, di lasciar perdere e di sfogare la mia frustrazione su amici, conoscenti e persino parenti, dilungandomi in discorsi su quanto preferissi videogame dalla narrativa profonda, in grado sfidare il mio apparente fine intelletto invece che le mie abilità. A oggi ancora rido del fatto che usavo Skyrim come termine di paragone per una narrativa intrigante. Come la volpe e l’uva, mi convinsi di non essere io a essere scarso: era Dark Souls a essere sbagliato.
Il richiamo di Lordran
Eppure, dopo anni di pausa, presi di nuovo in mano il controller, sfidando quel gioco maledetto che tempo prima mi fece dubitare della mia abilità. Se c’era riuscito Yotobi, allora anche io potevo superare questo enorme scoglio. Imparai a rollare, a essere paziente, a evitare di sbroccare ogni qualvolta un nemico mi procurava un danno esagerato. Imparai a capire cosa fosse Dark Souls.
Il videogame di Hidetaka Miyazaki è una sfida, una lotta, un’incredibile palestra per la nostre salute mentale. Dark Souls ci insegna che ogni ostacolo è lì per essere superato. Ogni difficoltà ci spinge non solo a migliorare il nostro modo d’affrontare i vari boss, ma anche migliorare noi stessi, attraverso un «you die» espresso non come presa in giro da parte di un sadico developer, ma in quanto nuova sfida da affrontare. Le morti non devono essere accompagnate da una folta sequela di bestemmie, ma da un sentimento di rivalsa per distruggere qualsiasi nemico ci abbia picchiato fino all’ultimo punto di HP.
Una lettera d’amore
Dark Souls forse è un’opera troppo grande per essere riassunta in una lista di pregi e difetti. Dal gameplay semplice ma efficace e la profondità delle meccaniche RPG, fino all’open world concatenato in maniera impeccabile, resta un unicum nella storia dei videogiochi, tanto d’aver influenzato centinaia di titoli successivi, portando alla creazione di un vero e proprio genere: i Soulslike. Il capolavoro di Hidetaka Miyazaki resterà dunque una delle più grandi sfide lanciate a noi giocatori che, fra un videogame cinematografico e una battle royale, abbiamo avuto modo di provare una vera e propria sfida.