Gigi Proietti: il mandrake dello spettacolo italiano
Gigi Proietti
«Viva er teatro, dove tutto è finto ma niente c’è de farso. E questo è vero».
Mandrake
Chi era Gigi Proietti? Cosa ha rappresentato? Parafrasando il suo Mandrake, personaggio a noi carissimo, Gigi Proietti è stato «un misto, un cocktail, un frullato de robba». A partire dagli sfortunati, che associano il suo nome alle voci del Genio della Lampada di Aladdin o, peggio ancora, all’imbarazzante Draco di quella gran busta di Dragonheart, fette diverse dell’enorme pubblico stratificatosi nei cinquantacinque anni della sua carriera portano con esse una o più differenti immagini di un artista capace d’aver spaziato in tutti gli estremi dello spettacolo.
Un antieroe di talento
Gigi Proietti, infatti, è significato tanto sedersi per terra nelle sere dell’estate romana e rimanere incantati di fronte agli spettacoli del suo Globe Theatre, quanto trascorrere intere settimane tra amici, comunicando esclusivamente attraverso le fulminanti battute di Febbre da cavallo.
A lui gli occhi, please!
Allargando l’obiettivo e calandolo nel giusto contesto, ci si può accorgere che, nonostante la sua individualità artistica strabordante, in grado di calamitare l’attenzione del pubblico al grido di «a me gli occhi, please!», Gigi Proietti è stato in grado di mantenere il tocco dell’antieroe di talento e, oltre che come capocomico, ha saputo brillare anche come principe dei comprimari, come nello straordinario ruolo di filo conduttore nel Casotto di Sergio Citti.
Come si arriva a essere tutto questo? Se passiamo in rassegna lo star system italiano del tardo Novecento, ci accorgiamo che, dopo il tramonto della grande commedia all’italiana e dell’appendice dolceamara di Ettore Scola, il cinema ha smesso d’essere l’arena del divismo popolare, sorpassato dalla televisione e poi dal web. Un immaginario a buon mercato in cui non serve più essere grandi attori per diventare stelle, anzi.
Tra due generazioni
Gigi Proietti è stato, insieme a Carlo Verdone, Massimo Troisi e Roberto Benigni, sebbene in maniera molto diversa in termini di linguaggio, stile e testualità, uno dei protagonisti della generazione successiva: l’anello di congiunzione tra l’epopea di Gassman, Mastroianni, Tognazzi e Sordi e le epoche meno lucenti, forse non tanto per demeriti degli attori, quanto del contesto.
C’è lui prima delle meglio gioventù per lo più romanocentriche di Lo Cascio, Rossi Stuart, Gifuni, Favino e Mastandrea e poi del nuovo neorealismo, sempre spiccatamente capitolino, di Marinelli, Borghi, Germano e Santamaria, per citare solo il versante maschile e drammatico.
Un artista poliedrico
Gassman e il gassmanismo Gigi Proietti li ha attraversati e lambiti, anche incontrandoli in Brancaleone alle crociate, nella triplice interpretazione che lo vide indossare i pochi panni dello stilita Colombino, del peccatore Pattume della Morte dall’accento toscano. Con la sua voce robusta, da grande attore qual era, sapeva spaziare dal registro cavernoso alle frequenze più acute, essere Mangiafuoco nel Pinocchio di Matteo Garrone, avventurarsi nel grammelot, cantare nel cabaret, ai piano bar dei night club più scalcinati e fino a Sanremo, leggere e raccontare nel modo più avvolgente.
Proietti e il teatro
Ed è stato un regista teatrale e maestro di recitazione discreto e anche pudico di allievi, spesso sedicenti tali o degeneri, di certo mai all’altezza di superare il mentore. Erede a suo modo di Trilussa, ma soprattutto epigono di Petrolini, Gigi Proietti ha incarnato il trait d’union tra l’alto e il basso, tra Edmund Kean e Mandrake, tra il grande teatro e la barzelletta da trivio (legittima erede del fescennino, peraltro).
Perfettamente credibile come fool shakespeariano, Gigi Proietti ha potuto ergersi a Maestro, contando sulla poliedricità dell’uomo orchestra, del factotum della cultura popolare. E non a caso ha intrecciato il proprio destino con la felice e visionaria avventura del Globe Theatre di Villa Borghese, su cui aleggia anche post mortem la sua ispirata direzione artistica.
Lo scamiciato
Gigi Proietti era lo scamiciato che stava bene in cravatta, da ospite pomeridiano di Domenica in, che si destreggiava nella fiction televisiva Rai Un figlio a metà, con Andrea Giordana, ed era credibile come Maresciallo dei Carabinieri, ma senza inciampare nello svaccamento televisivo e nelle degenerazioni defilippiane e bonolisiane, interpretate sul versante maschile da quel Costanzo che, nel 2007, sarà suo antagonista nel duello rusticano per la direzione artistica del Teatro Brancaccio,
Una guerra dei mondi che vide sfidarsi da una parte le truppe di complemento del bagaglinismo, dall’altra la varia umanità, trasversale socialmente e politicamente, di chi pensava che si potesse fare cultura popolare senza scadere nel pecoreccio, né crogiolandosi in un astruso e onanistico intellettualismo.
Dalle vette ai sobborghi
Perché era questo Gigi Proietti: l’abilità istrionica di planare dalle vette dell’attore rifinito, fino ai bassifondi del «più burino dei burini», restando credibile, senza perdere la leggerezza, ma neanche lo spessore. E questo, nonostante si sia prestato, nell’ultima fase della carriera, a divagazioni nei sobborghi del cinepanettone, chissà se solo per ragioni alimentari.